Dall'uva al vino

Come veniva prodotto il vino? E quali lavori erano necessari nella vigna?
Per rispondere a queste domande abbiamo intervistato due rappresentanti della viticoltura lessonese: Pier Luigi Ozino, viticoltore dalla lunga esperienza e dai ricordi vividissimi, e Giuseppe Graziola, presidente dell'Enoteca Regionale del Biellese e della Serra e cultore di storia locale.
In questa pagina il nostro viaggio prosegue attraverso la loro esperienza alla scoperta dei saperi tradizionali collegati alla viticoltura e all'enologia.



Per leggere correttamente le parti in piemontese, trascritte secondo l'ortografia adottata dall'Atlante Toponomastico del Piemonte Montano, si rimanda alle Avvertenze.

la vite

D: Come si chiama la vite a Lessona? E le sue parti?

R: Si chiama vich; se partiamo dal terreno, sotto ha le rèis (radici) e sopra troviamo la gamba (fusto); dalla tèsta (parte terminale del fusto) si dipartono i co, detti anche le ramme (tralci), su cui crescono i bocc (gemme). Di solito un tralcio si pota corto: questo prende il nome di spron (sprone) o di arcal (ricaccio) e sarà il tralcio fruttifero dell’anno che verrà. Le föie (foglie) non hanno un nome specifico e nemmeno i fiur (fiori). Il frutto è l’ua (uva). Il grappolo si dice rapèlla: è costituito dalla rasc-cia (raspo) a cui sono attaccate le grann-e (acini). La polpa dell’acino è protetta dal bursat (fiocine, buccia), e al suo interno ci sono le gargnole (vinaccioli, semi). Poi sulla ramma ci sono anche i viticci, che si attorcigliano al filo e lo sostengono.


D: Quali vitigni erano coltivati? E ora? Quali sono le loro caratteristiche?

R: Il nabiö’ (nebbiolo) è la varietà principale; ma qui lo chiamiamo spagna, come lo stato, finché non è arrivato il disciplinare. Poi nelle vigne si trovava anche altro: la barbéra (barbera), la frèiza (freisa) e la vespolinn-a (vespolina). La vespolina si aggiungeva per dare sapore: ha dei viticci molto resistenti, potare la vespolina è più duro che con gli altri vitigni. In alcune vëggne (vigne) si trovava il clinton, che serviva da portainnesto, ma alcuni ne tenevano qualche gamba e lo vinificavano, come in Veneto. Poi c’era il tanzgìi o tinturiö’, che serviva a dare colore: il nebbiolo non dà un vino molto colorato, e quando andavano di moda i rossi scuri scuri… si aggiungeva questa uva. Da mangiare si teneva un po’ di luglienga, di bunarda (bonarda), magari su una toppia (pergola) davanti alla casin-a (cascina) e di mericann-a (vite americana), che aveva i bursat duri.


D: Come si impianta una vite?

R: Si facevano dei runch (scassi) profondi fino alle ginocchia, poi si metteva della terra smossa, che fosse soffice, se no le piante piccole fanno fatica ad attecchire. Si portava terra buona, con le carëtte (carriole) e i scestun (cestoni, gerle), perché qui è tutto ciuin (argilla); per scherzare si diceva téra da pipe (terra adatta a fabbricare pipe). Si scavava a mano, con la picca, che è un attrezzo che davanti ha un becco, mentre dietro una sorta di zappa. Se si poteva si dava un po’ di liam (letame), ma non ce n’era bisogno; poi se uno aveva gli animali qualcosa si metteva. Come dicono i detti ménu t’am dè, cu pu che it las (meno che mi dai, ancor più che ti lascio) e lasmi pour che it fas zgnur (lasciami povero che ti rendo signore), la vite ha bisogno di cure, certo, ma non è necessario ingrassarla o bagnarla eccessivamente perché poi produce troppo, e il vino ha minore qualità.


D: Come si chiamano le piante piccole della vite? Si usa ricavare piante per propaggini? Si usano viti selvatiche, e si fa in seguito l’innesto?

R: Le piante piccole si dicono vigötte (barbatelle); poi sì, si ricavano anche piante per propaggine: ci si faceva dare i rubiun (talee) da qualcuno. Alcuni usavano anche le viti selvatiche, per un po’ si sono usate quelle americane che resistevano alla fillossera.


D: Quando si pianta?

R: Dopo la vendemmia; si facevano magari le vigötte prima, e le si teneva in una cassetta, poi si piantavano.


D: Come si proteggono le piante più giovani?

R: Dopo aver piantato si faceva la mutéra (monticello di terra) attorno alla pianta, per proteggerla dalle gelate invernali.


D: Le viti di una vigna si sostituiscono tutte assieme, o poco per volta?

R: Si sostituiscono quando muoiono o quando diventano troppo vecchie: si capisce perché fanno ramme corte. Ma in genere resistono almeno trent’anni. Alcune anche di più: dipende dalla qualità.


D: La vite giovane ha un nome? Quando inizia a essere produttiva?

R: Si chiama vigötta; questo termine si usa finché la pianta non inizia a produrre, quindi dopo circa quattro anni; si può usare anche vigötta ansià (barbatella innestata) dopo che è stata innestata.

la vigna

D: La coltivazione della vite ha spazi ben definiti o promiscui? Come si chiama il terreno coltivato a vite?

R: La vëggna è vëggna (vigna)! Il promiscuo non si usa: anche perché se dèi l’awua (aspergi il verderame), poi finisce sulle altre piante e non va bene. Qualcuno metteva le patate tra i filari, perché tanto crescono sottoterra.


D: Quali sono le zone a maggior vocazione vitivinicola del comune?

R: Lessona si sviluppa da nord a sud, ed è caratterizzata da rilievi che si sviluppano seguendo i corsi dei torrenti: sulle parti sommitali di questi rilievi si trovano e si trovavano le vigne migliori di Lessona. Tra i rilievi, il migliore è quello tra l’Usterlin e la Val, con le vigne dello Tsöp, di Munfalcun, della Rava, della Gabarda e della Prëvustüra: lì poi il promontorio si chiude, le vigne quindi sono esposte dal mattino alla sera e la qualità è eccezionale! (vai alla mappa)


D: L’esposizione al sole è un elemento importante per impiantare una vigna?

R: Certo. Però non c’è un termine specifico per designare i terreni a solatìo: quelli migliori si chiamano öri.


D: Come è cambiato lo spazio destinato alla vite nel tempo? È cresciuto, è diminuito?

R: Dipende quanto andiamo indietro nel tempo: forse il momento di maggiore intensità è stata la seconda metà dell’Ottocento, finché non è arrivata la fillossera; poi un po’ le malattie, un po’ la crisi del mercato negli anni Venti-Trenta del Novecento, hanno contratto il settore. Qui nel Biellese tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento era arrivata la “rivoluzione industriale”, e si lasciava la vigna per impiegarsi in fabbrica. Col tempo si è capita l’importanza della viticoltura e della nostra tradizione; quando abbiamo ottenuto il disciplinare (1976) i grandi produttori erano tre. Adesso ce ne sono molti di più; merito anche del Comune, che ha previsto, a partire dagli anni Novanta, specifiche variazioni al piano regolatore per favorire il ritorno della viticoltura. Comunque, rispetto a un tempo, la superficie vitata è diminuita: lo si vede nei boschi, in molti ci sono ancora i segni delle lümmie (terrazzamenti), indizio inequivocabile della presenza, in passato, di una vigna.


D: Si coltiva sia in pianura che in collina?

R: Sì, ma con risultati diversi: la culinn-a (collina) dà qualità, la pianura quantità. Quasi tutti avevano un pezzo di vëggna nella barazgia (la baraggia; ne parliamo in un'altra sezione), ma da lì in pratica si ricavava il vino da casa, cui poi si aggiungeva l’acqua e si faceva il vinello. Era una bevanda che serviva da pasto, per scui la sèit (dissetarsi; lett. cacciare la sete). Il vino buono, che qui è abbastanza alcolico e tannico, era il vino di collina, destinato anche alla vendita. In piemontese lo si chiama vin dal fol (lett. vino del grullo): è detto così perché era da grulli vendere il vino buono e bersi quello di qualità inferiore!


D: Come sono disposti i filari in collina, in verticale o in orizzontale?

R: I filar (filari) sono disposti in orizzontale: non si possono fare grandi lavori meccanizzati, a causa delle lümmie (terrazzamenti). Si passa giusto a sföié (sfogliare; fare la potatura verde) con la macchina, ma si raccoglie a mano; una volta si ranzavu i co cun l’amiulèt (sfrondavano i tralci con il falcetto). Qualcuno per sfruttare meglio lo spazio li ha messi in verticale, a ritocchino, come si dice oggi.


D: Quanta distanza si tiene tra i ceppi?

R: Tra le gambe due metri… lungo il filare, perché qui di tradizione si usava mettere due gambe affiancate, e legarle allo stesso pal (palo). Poi si tendeva il co di una gamba in una direzione, e quella della seconda gamba nell’altra.

un palo in cemento a cui sono legate due gambe di vite

D: E tra i filari?

R: Tra i filari dipende da quanto spazio avevi, soprattutto in collina; appunto perché c’erano le lümmie. La vià, o viéra (andana; lo spazio calpestabile tra i filari) era di dimensione variabile.


D: Come erano organizzate le vigne?

R: Nella vigna non poteva mancare il pérs da vëggna (pesco della vigna), che dà delle pérse (pesche) piccole ma molto profumate; qualcuno aveva anche il fich (fico), ma l’albero più emblematico era il pérs. Se la vigna era lontana, ci potevano essere il casinot (casotto; ricovero per attrezzi) per conservare gli èzje (attrezzi) e per custodire le uve: non tutti potevano trasportare subito l’uva in cantina, bisognava avere a disposizione la cundücia cun al cartun e al caval (lett. la condotta con il carro e il cavallo) e chi aveva più vigne si assicurava di avere i trasportatori a disposizione da subito… Quindi si tenevano le uve nei casinot, anche perché c’era qualcuno che 'aveva la mano pesante' (rubava). Pochi pistavu (pigiavano) in vigna.


D: Gli appezzamenti sono grandi o piccoli? Quali strategie erano impiegate per separare gli appezzamenti?

R: Per separare gli appezzamenti non si usava nulla di speciale: i tèrmu (pietre di confine), le strada… i contadini sapevano dove finiva il loro. Non le siepi, perché fanno ombra alle vich e quindi sono controproducenti. I confini tra gli appezzamenti tenuti a bosco erano più problematici.

accudire la vigna e la vite

D: Sono diffusi gli alteni? Si usavano le pergole?

R: No, gli autin (alteni) non si facevano; ricordo solo qualche albero quando ero piccolo, ma altrove. La vich saliva fino a dieci metri, era difficile sia bagnarla sia raccogliere l'uva. Le toppie (pergolati) erano più di bellezza; uno aveva un pezzo di toppia nella vëggna o magari vicino a casa perché faceva ombra, ma non era una presenza sistematica. Più che altro si usava per coltivare le uve da mangiare, come la luglienga.


D: Come era costruito il filare?

R: Si faceva il runch (scasso) e poi si piantavano i pal (pali) di èrbu (castagno), che se prende un po’ d’acqua diventa duro come la pietra! Durano tanti anni i pal d’èrbu. Si tenevano le trumpe (ceppaie di polloni di castagno) per rifornirsi di pali: ogni quattro o cinque anni hanno la dimensione giusta. Qualcuno ha provato anche a usare la gazia (gaggìa; robinia pseudoacacia), ma è un legno più delicato e i pali vanno sostituiti prima. Negli ultimi anni sono arrivati anche i pali in cemento o in metallo. I pali si piantavano a due metri di distanza e ciascun palo era di appoggio per due vich, una per lato; e poi si tendevano una ramma da una parte e una dall’altra. Tra un palo e l’altro si tendevano i fil (fili) a cui si aggrappa la vite; di norma se ne usano due o tre, ma fino agli anni Sessanta si usava tendere anche un solo filo; i rami si legavano poi al palo. Queste legature si facevano con i sals (salici).


D: Quali lavori di accudimento richiedono i filari?

R: Bisogna controllare se i pali erano sani e sostituire quelli marci; poi si passava con la sappa (zappa) e con la ranza (falce messoria) per tenere pulito. Chi aveva gli animali magari concimava.

raspe in maturazione, fotografate nel mese di giugno

D: Come funziona la potatura?

R: Dopo aver vendemmiato si pua (pota). Per farlo si guardava la luna: si faceva sempre di lünn-a vèggia (luna vecchia, il periodo che va dalla luna piena al novilunio). Di solito si lasciano tre spron, così se uno brua (gela), ce ne sono sempre altri due su cui contare per l’annata successiva. Il numero di gemme varia in base alla pianta e al potatore: c’è chi ne lascia di più e chi di meno; tre o quattro sono un buon numero. Le ramme recise si chiamano sarmènt (sarmenti). Vanno bene per avviare il fuoco nella stufa. Adesso nelle grandi aziende le triturano e poi le smaltiscono.


D: E dopo la potatura, che cosa succede? E da quali azioni è seguita?

R: La vëggna l’è na gran tëggna (la vigna è una gran rogna), si diceva, per ricordare che i lavori nella vigna non finiscono mai. Dopo la potatura la vich la c’mènsa a pianzge (la vite va in succhio) e poi l’arbutta (mette le gemme). Poi si sgarzura (spollona; si eliminano i germogli superflui).


D: In quale periodo dell’anno la vite germoglia? Quando invaia l’uva? Quando diventa matura?

R: La vich germoglia a febbraio. C’è un detto: uva martsaiola la fa nan canté la piola (l’uva di marzo non fa cantare il cannello): se matura troppo presto, non dà vino buono! L’uva invaia tra fine luglio e inizio agosto; gli acini invaiati si dicono panciarö’. C’è un detto: San Iaculat i panciarö’ a cuat a cuat; San Lurènts a scènt a scènt (a San Giacomo [25 luglio] gli acini invaiati a quattro a quattro; a San Lorenzo [10 agosto] a cento a cento). In quello stesso periodo si creano anche i rasc-cèt (racimoli), dei grappoli di otto, dieci acini che non si raccolgono, perché abbassano la gradazione alcolica del resto del mosto; si lasciano agli uccelli per l'inverno. La maturazione dipende da uva a uva.

le malattie della vite e i trattamenti

D: Quali malattie rischiava di prendere la vite?

R: Le malattie principali erano la maladia da l’aua e la maladia dal sulfu, vale a dire la peronospora e rispettivamente l’oidio; poi c’era il murun: ma non saprei dire che tipo di malattia fosse. Un’altra malattia è la botrite: è un fungo che si propaga quand che l’era tant bagnà che la c’mènsa a marué (quando era molto bagnato e l'uva inizia a maturare). I grappoli diventavano simili a dei misun (talpe): gli acini erano tutti uniti e coperti di una muffa grigia e bisognava eliminarli perché riducevano il mosto. La flavescenza dorata è un problema abbastanza recente.


D: Come si proteggeva la vite dalla peronospora?

R: In un sacco di juta si mettevano dei grossi cristalli di rame, e li si bitavan a möji (mettevano a mollo) una notte nei butalin (trogolo in cemento, generalmente di forma cilindrica); così si ottiene il verderame, poi si aggiungeva la calce e si faceva la poltiglia bordolese. Con la cartina tornasole si verificava che la miscela andasse bene e poi la si spruzzava sulle piante con la boita da dé l’aua. In seguito sono venuti i rimedi cosiddetti "sintetici" come il Vitex, per poi riscoprire il biologico.

al butalin

la boita da dé l'aua

D: Come si curava l’oidio?

R: Si dava il sulfu (zolfo) bagnabile insieme al verderame e, nei periodi di gran caldo, lo zolfo in polvere. Si distribuiva con il bufat (soffietto): era un cilindro di pelle, che a una estremità aveva una sorta di tromboncino, e dall’altro un pezzo di legno con una manopola che soffiava lo zolfo fuori dalla sacca, attraverso il tromboncino. Era faticoso da usare, faceva venire male alle braccia! E poi lo zolfo bruciava gli occhi.

diversi tipi di bufat e una boita da dé l'eua

dé 'l sulfu cun al bufat

D: Si spargeva la cenere nella vigna?

R: Chi ne aveva lo faceva, ma non c’era una vera e propria cultura della soluzione di potassa. La cenere si buttava soprattutto nella liaméra (letamaio), perché si diceva che disinfettasse.


D: Si dà il diserbante?

R: No: solo ranza (falce messoria) e sappa (zappa)! C’era un modo di dire: da què ‘n zgiü ‘s doura la sappa e da què ‘n sü ‘s doura la lappa (da qui in giù si usa la zappa e da qui in su la parlantina). Lo si diceva sul confine, per dire che noi curavamo le viti e gli altri no.

la ranza (la falce messoria)


D: Quali sono gli insetti più pericolosi per la vite? Come vi si poneva rimedio?

R: Le gatte, che è un termine con cui noi indichiamo tutti i bruchi. I bruchi mangiano le foglie! Ma è un problema storico… Oggi gli insetti più dannosi, autentiche calamità, sono il ragnetto rosso e soprattutto la popilia.


D: Da cos’altro si protegge la vite?

R: La tampèsta (grandine)! C’era la processione votiva dalla Géza a San Vènts la prima domenica di maggio, passando per la Stra da Mort: la prima si è svolta nel 1636. Alcuni si rivolgevano a San Gran (San Grato): nella chiesa di Castèl è rappresentato mentre incanala la grandine in un pozzo. Nel 1899, oltre alle preghiere, si iniziò a levare verso il cielo il rombo dei cannoni antigrandine.


D: Si usano ancora i cannoni antigrandine?

R: A Lessona come in altre parti del Piemonte era attivo il Consorzio degli spari contro la grandine, ma è una tecnica che è stata abbandonata, perché di scarsa efficacia e pericolosa per gli operatori.

la processione raggiunge San Vénts


un cannone antigrandine ottocentesco


la vendemmia

D: Come ci si preparava alla vendemmia, in cantina?

R: Si pulivano bene tutti gli èzje (attrezzi), as bagnavu j’(ë-)scanà (si bagnavano le bigonce), per vedere se tenevano, s’arzantava la tinn-a (si risciacquava il tino), con l’acqua e basta, perché il metabisolfito è arrivato negli anni Settanta. Si raschiavano i butai (botti) da conservazione con i sapin (piccola zappa), per eliminare il tartaro che si era depositato. Una volta, ma parlo di almeno sessant’anni fa, alcuni bagnavano i butai con dell’acqua in cui erano state fatte bollire delle foglie di pesco per ammorbidire il tartaro.


D: Quali attrezzi venivano usati per raccogliere l’uva e per trasportarla?

R: I grappoli si raccoglievano nelle cavagne, ceste di vimini, poi sono venute quelle di plastica. Si usavano anche le brènte (brenta) da portare in spalla nelle vigne più ripide: una volta erano in legno, poi anche queste sono state fatte in plastica; ora ci sono i trattori ed è più facile. Da lì i grappoli si trasferivano negli scanà (bigonce) e nelle butalle (tipo di bigoncia molto grande, oppure botte aperta in alto) per trasportare le uve in cantina, con la cundücia. Si pigiava già un po’, per far stare più uva, anche se è un errore tecnico, visto che si faceva iniziare la fermentazione.

cavagna; l'incavo è stato ricavato per accomodarla sulla testa



D: Si guardava la luna per decidere quando vendemmiare?

R: No, non era importante. Si tastava (assaggiava), si guardava se le vespe mangiavano le grann-e. Il comune un tempo metteva l’avviso, lo faceva anche per l’avvio dei trattamenti. Oggi si aspettano i risultati delle analisi chimiche.


D: Si vendemmiano tutte le qualità di uva in una volta, oppure ci sono tempi differenti?

R: Si iniziava a cöie l’ua (vendemmiare; lett. raccogliere l'uva) per gli uvaggi e poi si passava alla spagna; c’era qualcuno che la seccava sulla strèga (fienile) o sul sciulà (solaio). Adesso si inizia a fine settembre, ma una volta si iniziava ben più tardi, verso la metà di ottobre, addirittura alla fine, tanto che di solito si turciava (torchiava) ai Santi.


D: Chi partecipava tradizionalmente alla vendemmia?

R: Cöie l’ua era una festa e partecipava tutta la famiglia: non c’era il problema dei voucher! E ai vendemmiatori si diceva: cantèi, cantèi cioè 'cantate, cantate!': era per controllare che la gente non mangiasse l’uva.

La vendemmia del 1915 in casa Avogadro


D: Al termine della vendemmia si svolgevano feste?

R: Tutta la vendemmia era una festa; si finiva con la scènn-a (cena) o il dizné (pranzo), mangiare assieme era l’essenza della festa. Era un evento molto importante: quando si vendemmiava si sentiva chiedere me ch’a l’è st’an? (come va quest'anno?) e rispondere at lu digh quand ch’a l’è ‘nt la crotta (te lo dico quando l'uva (sott.) è in cantina). Oppure, quando ci si incontrava, non si chiedeva "come stai?", ma "a bundia?", cioè "abbonda?", riferendosi all’uva nelle vigne.


D: Si usava cogliere i racimoli?

R: No, si diceva lasje le per i pasarot (lasciali per i passerotti). Soprattutto non si raccoglievano i rasc-cèt o i raplat, che erano i piccoli grappoli che la pianta faceva in estate, all’inizio della ramma. Avevano pochi acini e una gradazione alcolica pressoché nulla, perciò andavano evitati.

la cantina

D: Come erano organizzati gli spazi nella cantina?

R: C’era lo spazio per il tinagge (tinaia), dove arrivava l’uva e la si pigiava e dove c’erano i tini per la fermentazione; poi c'era un secondo spazio, la crotta (cantina), o anche il crutin (piccola cantina), dove si portava il vino per l’invecchiamento, dopo la torchiatura. Questa ripartizione però era propria solo delle grandi cascine: le cantine di tanti piccoli produttori non erano così ben organizzate.


D: Come si chiama il tino, in piemontese? Come era fatto?

R: La tinn-a, è femminile. Ce n’erano di diverse dimensioni, di solito erano almeno da 10 quintali, ma se ne vedevano anche di più grandi, che contenevano fino a 30-40 quintali, o di più piccoli. Di solito erano in ru (rovere); ce n’erano anche di èrbu (castagno), ma non era molto indicato a causa dei tannini. Adesso si usano le vasche di acciaio e sono tornate di moda quelle di cemento: hanno recuperato tante vasche ‘d ciman vègge (vasche di cemento vecchie), di quelle da sessanta, ottanta e pure cento brènte, e le vetrificano. Sono ben coibentanti, tengono fresco il vino.


D: Come si chiama la botte, in piemontese? Come era fatta?

R: Il butal. È in legno di ru (rovere), ma qualcuno ha provato a farlo di gazia. Il legno di castagno era evitato perché dava lo stesso problema segnalato per la fabbricazione delle tinn-e. La botte era composta da dujje (doghe), imbarcate usando il fuoco e tenute assieme da un sircc (cerchio) scampanà (scampanato), perché il tino non è dritto. Le dujje terminavano con un taglio che si inseriva nel card (cardo, binario), scavato sul fondo della botte, e per incastrarlo ci si aiutava con la murtaza (mazzetta; era in legno e di forma quadrata): questa azione era detta murtazé. Un tempo per sigillare il card era usata la sciunta (letame); poi si lavava tutto. Però funzionava bene. In cima c’era il bundun (apertura superiore della botte), dove si infilava la pröggia (imbottavino; sorta di grosso imbuto in legno), e sul fondo c’era un usciö’ (o usciat) (sportello inferiore della botte) per far uscire il vino; si metteva un galarin (rubinetto) oppure, per bloccare la fuoriuscita, una piola o piulat (spina di chiusura), oppure un biröl (perno).

al butal; dettaglio della parte inferiore

D: Cosa si usava per travasare il vino?

R: La pröggia, una sorta di grosso imbuto quadrato, di legno lucidato, con le giunture rinforzate in metallo. Ce n’erano di grose (grosse) e picc’ne (piccole). Come contenitori si usavano gli scanà e i sigilin (secchielli). C’erano scanà di diverse dimensioni: di solito si aggiravano attorno agli 80 cm di altezza, ma ce n’erano anche di più piccoli da mettere sotto alle tinn-e.

Questo, ovviamente, per travasare a mano, poi sono arrivate le pompe da travaso.


D: Dopo essere stato nelle botti, dove si metteva il vino?

R: Nelle damigiann-e (damigiane) classiche, da 54 litri.


D: Come si dice il torchio, in piemontese? Come era fatto?

R: Il torcc (torchio); aveva un basamento in ghisa, pesantissimo, e la gabbia laterale in legno. Al centro del basamento c’era una vite e in alto la tèsta (madrevite, detta anche chiocciola). C'erano torcc di diverse dimensioni: alcuni avevano un torcc personale, poi ce n'erano di consortili nel centro delle borgate. Altri ancora avevano dei torcc mobili, montati su dei cartun (carri), e allora andavano in una curt (cortile, aia) e turciavu (torchiavano) le vinacce di due o tre contadini. Una volta era diverso, c’era un forte spirito di collaborazione nei lavori agricoli.

al torcc

fare il vino

D: Come si chiama la spremitura delle uve, prima che diventi vino, e come si praticava?

R: Fraché l'üa. Una volta si pigiava a piedi.


D: Avveniva una pigiatura già sul campo?

R: Lo facevano in pochi; è una tecnica sbagliata, perché così il mosto prende aria, invece la fermentazione deve avvenire sottovuoto. Pochi pigiavano nei casinot prima e poi portavano il must (mosto) nella crotta; era una pratica adottata soprattutto da chi aveva le vigne lontano dalla cantina. Qualcuno pigiava un po’ l’uva negli scanà perché ce ne stesse di più, per risparmiare sulle cundüce.


D: Si usava la diraspatrice?

R: Si è iniziato molto tardi a usare la diraspatrice, più che altro si usavano delle sgranatrici.

antica diraspatrice

Diraspatrice della fine del XIX secolo - inizio del XX secolo, conservata presso il Municipio del Comune di Lessona

D: Che cosa si ottiene dalla pigiatura? Come si ottiene il vino?

R: Se frachi l’ua (spremi l'uva) fai il must (mosto). E se il must al bui (fermenta, lett. bolle), diventa vin (vino).


D: Cosa succede se le vinacce affiorano? Come si gestiva la fermentazione?

R: La fermentazione spinge le vinacce in alto e non va bene, perché si crea il capèl (lett. cappello; in viticoltura indica l'insieme solidificato delle vinacce che affiora sul mosto) e al vinassce al vénu brüsche (le vinacce diventano acide) a contatto con l’aria. Bisogna sempre rumpe al capèl (lett. rompere il cappello; follare)! C’erano varie tecniche per fare in modo che la parte solida del mosto non entrasse in contatto con l’aria. Una di queste è puntalélu (puntellarlo): si metteva una grija (griglia) di legno sulla tinn-a, e poi veniva puntalà, cioè si incastrava tra essa e il soffitto un lungo bastone; la grata restava sotto il livello del mosto e teneva basse le vinacce. Se invece si faceva fermentare il mosto nella botte chiusa, si poteva usare il cucco, un tronco di cono che si infilava nel bundun: con una grondaia raccoglieva il mosto che usciva e lo convogliava in uno scanà, e poi alla sera lo si rimetteva nella botte. Se il mosto era basso, ‘s fìa böji sfurtsà (lett. si faceva fermentare sforzato), ma ci voleva il butal adatto. Il butal veniva chiuso, ma si inseriva un tubo di gomma, che finiva in uno scanà pieno d’acqua: in questo modo si creava una sorta di circuito chiuso e il mosto non entrava a contatto con l’aria.


D: Quali altri problemi possono verificarsi durante la fermentazione?

R: Adesso ci sono strumenti e prodotti per controllare la fermentazione, come i sali d’ammonio, ma una volta queste cose non si usavano. Così, anche se il vino si faceva böji (lett. bollire; fermentare) per giorni e giorni, poteva succedere che la fermentazione si fermasse e non si completasse: il vino si fa subito dolce e si diceva vin dunsc (vino dolce). Poi in primavera, quando saliva la temperatura, il vino rifermentava, lo zucchero diventava acido acetico e il vino non resisteva. Quando inizia a sentirsi il dolce è meglio liberarsi subito del vino. Un’altra cosa che può creare problemi durante la fermentazione è la temperatura, che non deve superare i 26 o i 27 °C, perché altrimenti il vino perde i profumi e prende sentori di marmellata ed è un errore grave; una volta non si sapeva, oggi per porvi rimedio si usano le vasche di acciaio o vetrificate, coibentate e con il controllo della temperatura, oppure, nelle piccole cantine, si mettono nel mosto bottiglie con il ghiaccio.


D: Al vino si aggiungevano sostanze nella sua produzione?

R: I vecchi dicevano: as vèrna da sul al vin, il vino si fa da solo, e c’erano pregiudizi nei confronti del bisolfito. Ma il problema era il dosaggio: se si usa con giudizio, massimo dieci grammi al quintale, come previsto, va bene. Se se ne mette troppo, ovviamente no, e ne risente anche il gusto.


D: Per quanto tempo si lasciava il vino in fermentazione nei tini?

R: Una volta as fia buje (si faceva bollire) a lungo, più di un mese. Se ne ricavava un vino duro, cruv (tannico), anche perché, non diraspando, la rasc-cia restava con le vinassce e rilasciava tutti i tannini. Adesso gli enologi at rüziu (ti rimproverano); dicono: il vin, cu pi n prèssa che t lu torci e mèi a l’è (il vino, prima torchi, meglio è).

la torchiatura


D: Dopo la fermentazione quindi si torchiava?

R: Si turciava, sì, anche due volte. Adesso si torchia presto, anche perché il tempo di fermentazione è ridotto, rispetto al passato; una volta si torchiava anche dopo un mese di fermentazione. Si metteva l’uva nel torcc, poi si coprivano le vinacce con due mezzelune di legno, facendo attenzione che coprissero bene; poi si mettevano le caste, dei parallelepipedi di legno grezzo, che si usavano per raggiungere la vite facendo il castello, e si turciava. Una volta si torchiava fino all’ultima goccia, si ripassavano le vinacce… e visto che non si diraspava, nel mosto c’era anche il raspo e, torchiando molto, il vino diventava erbaceo. Non bisogna avéi prèssa (aver fretta) per turcé: piano piano, perché il liquido non deve passare sopra la mezzaluna. Anche la torchiatura era una festa, ci si trovava in tanti, si mangiava e si stava assieme.


D: Quando si travasa il vino? Si badava alla luna?

R: Dopo la torchiatura, una volta il vin as girava (lett. si girava; si travasava) per la prima volta a gennaio, poi lo si travasava di nuovo verso marzo, aprile. Si guardava la luna - as gira ad lünn-a vèggia (si travasa di luna vecchia)! - e non solo: dev’essere una giornata senza vento e senza pioggia, temperata il giusto. Inoltre al vin l’ha sèmpi da sté ‘ns al pulid (il vino deve sempre stare sul pulito), quindi quando si vuota un butal si raccoglie la puciacca (feccia), che si filtrava con un canovaccio per non sprecare vino. Una volta si torchiava a novembre, lo si travasava a gennaio e poi non lo si toccava fino a primavera; adesso tra la vendemmia e la fine dell’anno lo si gira magari tre o quattro volte.


D: Alfonso Sella, nella sua raccolta di proverbi e modi di dire biellesi, raccoglie il detto: «quan ch’a bogia la vich alura bogia anca l vi nt al butal; alura venta girelu» (quando muove la vite allora muove anche il vino nella botte; allora bisogna travasarlo).

R: A l’è véra (è vero), il vino si muove, basta fare la prova e mettere dell’olio sulla damigiann-a: fino a quando non si avvicina la primavera tutto è fermo, a primavera l’olio viene buttato fuori, nel senso che il vino è sempre vivo.

dalla damigiana alla bottiglia


D: C’è una tradizione di invecchiamento del vino? Come?

R: La spagna d’Alsunn-a è un vino da invecchiamento, anzi, è uno dei vini che tiene di più l’invecchiamento. Per la DOC ora il tempo di invecchiamento minimo è fissato a due anni, ma una volta passavano almeno tre o quattro anni prima di imbottigliarlo. Per invecchiare il vino lo si tiene nei butal, e lo si gira continuamente, almeno quattro o cinque volte all’anno prima di ambutié (imbottigliare).


D: C’è una tradizione di vinificazione di uve passite?

R: Qualcuno un tempo vinificava la spagna passita, ma in pratica è una tradizione che si è persa.


D: Quando si imbottiglia? Si bada alla luna?

R: S’ambutia in primavera, sempre di lünn-a vèggia.


D: Come si dicono le fogliuzze bianche, talvolta galleggianti sul vino?

R: Quella è la fiurëtta.

D: Come si chiama il velo che si forma sulla superficie del vino nella botte?

R: Anche quello è detto fiurëtta.

il vino



D: Il mosto viene usato per qualche preparazione?

R: No, non c’è la tradizione della cügnà (marmellata di mele cotogne) come in Langa o in Monferrato; qualcuno faceva la mustarda (mostarda), con le pumme (mele), ma era una cosa lunga da fare. Si usava per accompagnare il bollito.


D: Ci sono prodotti particolari con il vino?

R: Beh, si faceva il vinello, se uno aveva del vino non troppo buono… e poi l’azì, con l’aziléra (acetaia) e la mère ’d l’aziléra (madre dell'aceto). Non si buttava mai via il vino, non lo si sprecava.


D: Il vino veniva dato a puerpere?

R: Oggi no; ma era una pratica che un tempo era seguita. C’è una famosa lettera del 1924, in cui Garlanda chiede all’amico Eraldo Marocchetti (v. il vino e i protagonisti), medico e viticoltore lessonese, di procurargli un po’ di bottiglie di Lessona per la figlia. In passato venivano riconosciute proprietà curative ricostituenti, almeno questo lascia intendere un'altra lettera di metà Ottocento del dottor Zumaglini, che descrive il suo tentativo - riuscito! - di curare il cavalier Viani, intendente della Provincia di Biella, con il Lessona. L’importante era che il vino fosse vecchio o stravecchio, mentre quello troppo giovane faceva venire il mal di testa.


D: Il vino veniva usato come disinfettante?

R: Il vino no; al massimo la branda (grappa).


D: Una volta si beveva di più di ora?

R: Come direbbero i francesi: ça va sans dire. C’erano persone che potevano bere anche tre pintun (pintoni; un pintone è una bottiglia da 2 litri) di vinello al giorno. Va detto che il vino poteva anche sostituire il pranzo: tanti facevano pan, vin e tsüccre (pane, vino e zucchero)

D: Le vinacce venivano usate per fare qualcosa?

R: Le vinassce venivano usate soprattutto per concimare; qualcuno faceva la branda (più o meno legalmente) oppure si ricavava il vinello - qualcuno lo chiamava vinèt. Per fare il vinello si torchiavano poco le rasc-ce (raspi), e quel vino andava nella tinn-a; poi le si bagnava con del vino di poco pregio e si torchiava di nuovo, aggiungendo un acido che lo rendeva un po’ frizzante.

la valutazione del colore del Lessona



D: Come veniva giudicato un vino?

R: Se il vino è cattivo, si diceva che era una vinàpula o che era un vin müt, muto, cioè che non diceva niente, che non aveva "anima". Se era buono, si diceva che era saurì, saporito, o bun, bun da bun (buono, buono veramente). Si usava l’espressione vin dal bastun (vino del bastone) quando un vino era considerato falso, forse per l’uso furfantesco di mettere un palo di castagno nel vino perché i tannini lo rendessero più scuro.


D: Quali possono essere i difetti del vino?

R: Il vino può essere tarbul, torbido, fort, forte, spuntà (spuntato), oppure si dice anche che sputtsa (puzza). L'essere cèr (chiaro) può essere sia una caratteristica positiva, se si sta valutando un vino appena spillato, sia un difetto, se è un vino invecchiato. Ma anche se è troppo scuro è un difetto; in questo caso si dice as vin l’è tan mè l’inciostr (il vino è come l’inchiostro). Se è pastoso si dice che è spès na curtlà (spesso una coltellata), quando lo versi e non taglia dal collo della bottiglia, che non scorre bene. Un altro difetto è che sia marsalà (marsalato), cioè troppo vecchio e un po’ dolciastro. Poi c’è il vin dunsc (vino dolce) che si ha quando la fermentazione si ferma e non si completa. C’è il rischio che ricominci in primavera e in quel caso il vino non dura. In questo caso si diceva vin ch’a riva nan al meis d’a(g)ust (vino che non arriva al mese di agosto). E poi il vino poteva essere cruv, cioè tannico: par bèilu vanta tachési a la taula (per berlo bisogna tenersi al tavolo)!


D: Quali vini vengono prodotti?

R: Lessona è essenzialmente terra di spagna, la spagna d’Alsunn-a e quest’anno (2021) festeggiamo il quarantacinquesimo anniversario del riconoscimento della DOC (3 dicembre 1976).

proverbi e modi di dire

Uva martsaiola la fa nan canté la piola: l’uva di marzo non fa cantare il cannello - in riferimento allo scrosciare del vino.

San Iaculat i panciarö’ a cuat a cuat; San Lurents a scènt a scènt: a San Giacomo (25 luglio) gli acini invaiati a quattro a quattro; a San Lorenzo (10 agosto) a cento a cento

La vëggna l’è na gran tëggna: la vigna è una gran rogna

Da què ‘n zgiü ‘s duvra la sappa e da què ‘n sü ‘s duvra la lappa: da qui (il confine nord di Lessona) in giù si adopera la zappa e da qui in su si adopera la parlantina.

Cantèi cantèi: cantate, cantate! Si ripeteva ai vendemmiatori: se impegnati a cantare, non potevano mangiare l’uva.

Bài(v) come na pröggia; l’è propri na pröggia; na pröggia sensa funt: la pröggia è un imbuto di grandi dimensioni; sono tutti modi di dire impiegati per qualificare un grande bevitore (bere come una p.; è proprio una p.; una p. senza fondo).


Se piou a Santa Barnabà l’ua bianca as na va; se piou matin e sèira ai va la bianca e cula nèira. Se piove a santa Barnaba (11 giugno) l’uva bianca se ne va; se piove mattina e sera se ne va la bianca e quella nera.

San Medart quaranta dì fa la sua part: San Medardo (8 giugno) quaranta giorni fa la sua parte.

Tandì-tandì: è il verso della cinciallegra; nelle vigne il suo canto è considerato un richiamo per i viticoltori a tendere i tralci potati ai fili di ferro di sostegno alle viti.